Tommaso d'Aquino (scheda)

Tommaso d'Aquino a cura del prof. Marcello Landi

Originariamente pubblicato in: http://lgxserver.uniba.it/lei/filosofi/autori/tommaso-scheda.htm, poi spostato qui: https://web.archive.org/web/20051125052858/http://lgxserver.uniba.it/lei/filosofi/autori/tommaso-scheda.htm

Vita, opere principali e fortuna.

Tommaso nasce quasi certamente a Roccasecca (ca. 1221), nel frusinate, e muore a Fossanova (1274), presso Latina, mentre sta recandosi al Concilio di Lione.

Studia a Montecassino, poi all’Università di Napoli, dove conosce l’Ordine dei Predicatori (i Domenicani), allora di recente fondazione e di scarso prestigio, ordine nel quale entra a diciannove anni, nonostante la risoluta opposizione della famiglia. Termina i suoi studi a Parigi e a Colonia, sotto la guida di Alberto Magno, che gli insegna ad apprezzare la fisica e la metafisica di Aristotele.

Fra il 1252 ed il 1259, insegna a Parigi, prima come baccelliere - titolo di studio che comportava la possibilità di svolgere l’incarico di insegnante assistente - poi come maestro di teologia. A questi anni risalgono molte sue opere, quali il De ente et essentia e i commenti alle Sentenze di Pietro Lombardo, al De Trinitate e al De Hebdomadibus di Boezio, nonché al De divinis nominibus di Dionigi l’Aeropagita.

Dopo un decennio trascorso in Italia, nel corso del quale dirige anche lo studio teologico pontificio a Roma, torna ad insegnare a Parigi (1269-72). Negli ultimi anni di vita è, invece, a Napoli. A questo periodo sembrano risalire i commenti ad Aristotele (studiando le opere del quale Tommaso scopre, tra l’altro, che un testo tradizionalmente attribuitogli, il Liber de causis, non può essere autentico, in quanto epitome di temi neoplatonici) e a parecchi libri della Bibbia, nonché le due Summae - Theologiae e Contra Gentiles - e le Quaestiones disputatae.

La carica innovativa del suo pensiero, non inquadrabile nel tradizionale agostinismo, non viene immediatamente accolta con favore: nel 1277, alcune sue tesi vengono condannate dagli arcivescovi di Parigi e, ad Oxford, di Canterbury (pur essendo quest’ultimo un domenicano). Nel 1879, però, il papa Leone XIII proclama Tommaso dottore comune della Chiesa Cattolica. Il tomismo è tuttora un movimento filosofico molto attivo, anche in ambiti non cattolici.

Ragione, scienza e fede.

Il metodo di lavoro di Tommaso è caratterizzato da una grande e critica fiducia nella ragione umana e nelle sue capacità di scoperta: nel commento al De coelo et mundo di Aristotele, ad esempio, sostiene che non si debba mai ritenere una teoria scientifica definitivamente vera, perché può sempre succedere che ne venga elaborata una nuova, in precedenza mai concepita da nessuno. La certezza nell’universale capacità umana di ragionare fa di Tommaso un grande sostenitore del metodo dialogico (Summa contra gentiles), capace, come si vede in ogni sua opera, di accogliere senza pregiudizio qualunque contributo di riflessione possa avvicinare alla verità, da qualunque ambiente esso provenga: cristiano o musulmano, ebreo o pagano. Giungere alla pienezza della verità, che Tommaso identifica con Dio, non è, però, alla portata della sola ragione umana: dobbiamo fare ricorso ad una superiore fonte di conoscenza: la Rivelazione. Si badi bene: superiore non vuol dire contrastante! Tommaso è molto lontano dalla teoria della doppia verità degli averroisti latini, i quali ritenevano, secondo l’impostazione di Sigieri di Brabante, che la fede e la ragione potessero rispondere in modo non solo diverso, ma addirittura opposto alla stessa domanda e che si dovessero tenere per buone entrambe le risposte. Per lui, invece, la fede e la ragione, se rettamente intese, non possono mai essere in contrasto tra loro, provenendo entrambe da Dio; la differenza tra esse sta nel fatto che la seconda, anche quando parla di Dio, lo fa a partire dalla sua manifestazione nella natura, mentre la prima è fondata sulla conoscenza che Dio stesso ha di sé. Da qui deriva il suo primato. La teologia, che si basa sulla Rivelazione divina ed è una scienza per gli uomini solo in quanto subalterna alla scienza di Dio, ha lo stesso statuto epistemologico di altre scienze quali la prospettiva e la musica, che ricevono, senza né dimostrarli né poterli considerare di per sé evidenti, i proprii principii di lavoro rispettivamente dalla geometria e dall’aritmetica.

“Autonomia” della natura. Antropologia.

L’idea che la ragione non venga annullata dalla fede, ma conservi, anzi, una sua forma di autonomia, è organica al complessivo impianto tomista del rapporto tra Dio e mondo: Dio non si sostituisce alle creature agendo al loro posto, ma fa sì che l’azione sia un prodotto delle creature stesse. Anche nel caso della grazia è opportuno parlare di causa principale (Dio) e di causa strumentale (la volontà umana). Il principio che Dio dà alle cose non solo di essere ma anche di essere causa comporta numerose conseguenze: la possibilità, in teologia, di comporre una forte sottolineatura della predestinazione divina con la certezza della libertà umana; il superamento, in cosmologia, della teoria agostiniana delle “ragioni seminali”; l’affermazione, in gnoseologia, che l’illuminazione intellettiva deriva all’uomo non direttamente da Dio, ma da Dio (causa principale) attraverso l’intelletto agente (causa strumentale) che, con queste premesse, non può che essere individuale, contro le teorie di Alessandro di Afrodisia, di Avicenna e di Averroè.

L’antropologia assunta, dunque, è quella aristotelica: l’uomo non è un’anima che si serve di un corpo, ma è un composto corpo-anima, un sinolo, una creatura al confine tra mondo della materia e mondo degli esseri spirituali. Il che, tra l’altro, concorda con la dottrina cristiana della resurrezione dei corpi, dottrina più forte e caratterizzante della semplice affermazione della sopravvivenza delle anime. Proprio quell’Aristotele che pareva così lontano dal Cristianesimo aiuta quindi, secondo Tommaso, a capirne meglio gli insegnamenti.

Fatto notare che l’intima unione tra corpo e anima comporta che ogni nostra conoscenza derivi dai sensi, Tommaso coglie l’occasione per interrogarsi sull’oggetto proprio del conoscere umano (noi cogliamo le nostre stesse percezioni o cogliamo, attraverso le percezioni, delle realtà esterne a noi?) e, scartato l’idealismo gnoseologico, si orienta verso il realismo, sottolineando la capacità intuitiva del nostro intelletto. Ugualmente realista, benché moderato, è l’orientamento assunto nella disputa sugli universali, dove il motivo del contendere è lo status ontologico degli universali (concetti, generi, specie, ecc.): sono enti reali, come vuole la dottrina platonica del mondo delle Idee? Sono reali solo in quanto proprietà delle cose individuali e nelle cose individuali, come sostiene Aristotele? Od appartengono solo al nostro modo di conoscere e denominare le cose, non essendo altro che puri nomi, o al massimo concetti? L’Aquinate, dunque, ricordando la posizione di Boezio - che ricercava una mediazione tra Platone ed Aristotele, e che poneva, come era usuale in età patristica, le Idee di Platone nella mente di Dio - attribuisce agli universali una sussistenza sia nella mente di Dio come possibilità di partecipazione dell’essere ("ante rem"), sia nelle cose come loro essenza ("in re"), sia nella mente dell’uomo come concetto ("post rem").

Filosofia dell’essere.

Lo studio dell’essere è il cuore del pensiero di Tommaso, che ha creato una vera e propria “filosofia dell’essere”: rovesciando l’idea aristotelica della centralità della sostanza (ed accogliendo i suggerimenti di Avicenna, che afferma la necessità, nel considerare gli enti, di tenere distinte l’essenza e l’esistenza), all’essenza viene attribuita una posizione di semplice potenza in confronto a quel particolare atto che è l’atto di essere (De ente et essentia), perfezione prima di ogni ente. Come in Aristotele era chiara la distinzione tra “essere in potenza” ed “essere in atto”, altrettanto chiaramente Tommaso elabora il concetto di “essere come atto”. “Essere” non indica una semplice presenza, “essere” indica un’attività, la più alta e completa delle attività. L’essenza è addirittura ciò che, determinando e coartando l’essere, lo limita e lo impoverisce: l’essenza umana, che mi è propria, stabilisce in quali modi posso essere, ma contemporaneamente stabilisce anche in quali modi non mi è assolutamente dato di poter essere. Da questo punto di vista, Dio, che non ha limiti, non ha altra essenza se non l’esistenza: semplicemente “è”, senza distinzioni e senza composizioni; le creature, invece, “hanno” l’essere, cioè ne partecipano solamente, sono composte di essenza e di esistenza: perciò, anche quando esistono di fatto, sono sempre contingenti, cioè tali da poter anche non essere.

“Partecipazione” è il concetto che esprime sul piano ontologico quello che è “analogia” sul piano logico, indicando il possesso parziale di una realtà che altrove è presente nella sua pienezza. Già Aristotele aveva individuato quella che usualmente è definita “analogia di attribuzione” (Es: anche se propriamente la salute si predica solo di un vivente, si attribuisce ad un cibo l’aggettivo sano perché causa salute in chi ne mangia); da parte sua, Tommaso coglie anche l’analogia di proporzionalità (Es: due soggetti possiedono realmente e propriamente una data qualità, benché in grado diverso, come quando qualifichiamo intelligente un animale ed un uomo). “Essere” è un concetto analogico non solo secondo il primo modo, come ha visto Aristotele, ma anche secondo l’altro.

La nozione di analogia rende possibile a Tommaso affrontare la diatriba tra teologia catafatica-affermativa ed apofatica-negativa senza né schiacciarsi su una delle due posizioni (il sostenere che sia possibile parlare di Dio utilizzando sostanzialmente i concetti umani oppure il negare che a Dio si possa attribuire alcunché, se non in modo negativo o causativo) né porsi in una banale equidistanza: il modo con cui diamo dei “nomi” (sostantivi od aggettivi) a Dio deve prevedere tre passaggi: affermare, negare, affermare su un piano infinitamente superiore (Dio è buono, Dio non è buono come lo sono le creature, Dio è buono in un modo infinitamente superiore). Poiché in Dio tutto è Dio, e perciò coincide, vi devono essere identiche anche quelle perfezioni che sulla terra sembrano opposte; poiché non sappiamo come questo sia possibile, dobbiamo confessare che, alla fine, la natura di Dio ci sfugge, ed ha ragione Agostino: "Deus scitur melius nesciendo".

Esistenza di Dio.

L’esistenza di Dio non può essere provata a priori, perché, per accettare ad esempio l’argomento ontologico di Anselmo, dovremmo conoscere l’essenza di Dio, il che, in questa vita, non si dà. Rimangono valide delle prove a posteriori. Tommaso parla di cinque vie, a partire:

1. dall’osservazione del movimento: se osservo un qualsiasi mutamento (“movimento” è inteso qui nel senso generale di mutamento), devo necessariamente presupporre un “motore”, cioè un agente che abbia originato il mutamento; tale motore, per muovere, deve essere in atto, poiché ciò che è in potenza non agisce di fatto, ma soltanto può farlo; ora ci sono due possibilità: o quel motore è sempre in atto, ed è Dio, o ha avuto bisogno di un ulteriore motore che lo portasse dalla potenza all’atto affinché potesse muovere; in questo secondo caso, il motore responsabile del primo movimento (indipendentemente da quanti siano i motori intermedi) dovrà per forza essere sempre in atto, altrimenti non lo sarebbe nessuno degli altri motori, ed io non osserverei nessun mutamento. Ed anche se i motori in potenza fossero infiniti, resta il fatto che non potrebbero, essendo tutti in potenza appunto, produrre una sola cosa in atto. Ma siamo partiti proprio dal fatto che un qualche movimento in atto si dà ed è osservabile. Il primo motore che, essendo immobile e sempre in atto, pone in attività i motori successivi è ciò che chiamiamo Dio.

2. dalla causalità efficiente: si procede in modo analogo al precedente, applicando il procedimento al fatto che osservo l’esistenza di realtà che non si spiegano da sé, ma sono effetto di qualcos’altro; anche in questo caso deve esistere una causa efficiente prima, che chiamiamo Dio.

3. dalla riflessione sulla contingenza: l’esperienza ci attesta che esistono cose che possono essere come non essere, cioè sono contingenti; ma cose siffatte talvolta sono talvolta no; posta la domanda se ogni cosa sia contingente o se esista qualcosa di necessario, dobbiamo escludere la prima ipotesi: infatti, se tutto fosse contingente, sarebbe inevitabilmente capitato, in passato, un momento in cui tutto non era; il che è falso perché altrimenti ora non ci sarebbe niente; dunque, deve esistere qualcosa di necessario, anzi qualcosa di necessario per sé, che non abbia ricevuto la sua necessità da altro: tale cosa tutti chiamano Dio.

4. dai gradi di perfezione: se possiamo osservare, nel mondo, cose con una “perfezione” (qualità, potremmo dire) posseduta in grado più o meno elevato (cose più o meno buone, ad esempio), dobbiamo ammettere l’esistenza di quella perfezione ad un livello massimo (la bontà assoluta, nel nostro esempio); tale livello assoluto di perfezione, richiesto dal relativo che noi vediamo, è normalmente chiamato Dio.

5. dalla considerazione che oggetti naturali non dotati di volontà agiscono in modo ordinato e finalizzato: infatti, sempre, o per lo più, operano in un determinato modo (cosa su cui, come è facile notare, si rende possibile la costruzione della scienza); il che richiede che un essere intelligente abbia dato razionalità al cosmo: quest’essere è quello che chiamiamo Dio.

Una versione sintetica di questi argomenti è presente nella Summa Theologiae, mentre se ne può trovare una discussione più approfondita, anche se solo di alcuni, nella Summa contra Gentiles. I richiami teoretici sono: per le prime due vie ad Aristotele, per la terza ad Avicenna, per le ultime ad Agostino ed al platonismo.

Proponendo queste “vie”, Tommaso intende mostrare la stringente ragionevolezza di pensare ad un fondamento metafisico del mondo – il cui stesso essere non dipende da sé, non trova in sé la propria giustificazione -, ma esplicita anche chiaramente che non si tratta affatto di tentare di “dimostrare” il Cristianesimo: la Redenzione, in quanto fatto storico, non può essere razionalmente dimostrata, ma va conosciuta mediante un opportuno ed attento studio delle fonti, in sostanza della Bibbia. Lì si potranno riscontare i motivi di ragionevolezza del credere, anche se la decisione ultima sarà sempre lasciata alla libera volontà di accettare o meno la Rivelazione, ed anche se il credere risulterà, alla fine, essenzialmente un dono della grazia.

Etica e politica.

Oltre che fondamento e causa efficiente del mondo, Dio ne è anche il fine: nell’uomo, in particolare, l’agire consapevole è sempre in vista di un fine. Ma c’è un fine ultimo, criterio di ogni atto di scelta? Sì: è raggiungere la beatitudine, che Tommaso intende in senso oggettivo: quella realtà capace di rendere beati. Tale può essere solo il bene infinito, perché i beni finiti non ci possono quietare in tutti i nostri desideri, ed il bene infinito, l’infinito essere, è Dio. Il mio personale stato di benessere soggettivo è allora conseguenza del raggiungimento del fine, non è fine esso stesso. Così la legge è soltanto mezzo per raggiungere il fine, non fine essa stessa. Nel momento in cui obbedire alla legge (qualsiasi legge), mi allontanerebbe dal fine, la legge non vale più. Tommaso parla di una speciale virtù che aiuta a capire quando è il momento di disobbedire (Summa Theologiae).

La legge può essere distinta in quattro livelli: 1. legge eterna, nella mente di Dio e pertanto non conoscibile da noi in modo diretto; 2. legge naturale, che è una partecipazione della prima e si può cogliere con la ragione; 3. legge positiva, che è posta dagli uomini e non deve contrastare la legge naturale, pena la perdita di validità: posso ribellarmi ad una legge che calpesti un mio diritto naturale, devo farlo se la legge vuole impormi di calpestare un diritto altrui (è significativo, a questo proposito, che anche una convinzione sinceramente ed inconsciamente errata legittima alla resistenza, poiché prevale moralmente l’assenso alla propria coscienza per quanto oggettivamente in errore); 4. legge divina, che vale per chi accetta il Cristianesimo e non può essere imposta a chi è fuori dalla Chiesa. Questa concezione del diritto fonda la reciproca autonomia dei poteri politico e religioso: Tommaso, contrario alla teocrazia, afferma che l’autorità politica è legittimata da Dio attraverso il consenso popolare, non attraverso il Papa. La società migliore, anzi, è quella in cui tutti sono elettori e tutti eleggibili (Summa Theologiae).

Interessante, a riguardo della legge naturale, è il fatto che esista una gerarchia nei diritti naturali: ad esempio, quello alla proprietà è subordinato, e funzionale, al diritto alla vita. Ne deriva che, qualora il diritto alla vita di qualcuno si possa affermare solo con l’appropriazione di beni (magari superflui) altrui, quest’appropriazione è pienamente giustificata; la proprietà privata, insomma, per quanto in sé legittima, va sempre coniugata con un uso sociale dei beni.

Le riflessioni dell’Aquinate sul diritto naturale si sono rivelate di grande importanza, nella storia del pensiero occidentale, per la nascita del moderno diritto internazionale (si veda il domenicano spagnolo Francisco de Vitoria) e per la formazione della dottrina sociale della Chiesa cattolica, a partire dalla Rerum Novarum (Leone XIII - 1891) fino ad oggi.

Bibliografia essenziale.

Le principali opere di Tommaso sono reperibili, in italiano, nelle Edizioni Studio Domenicano – ESD, Bologna; altrimenti, ma sono ormai difficili da reperire, sono state pubblicate in latino dalle Edizioni Marietti, Torino.

Tommaso d’Aquino, Summa theologiae, Ed. San Paolo, Cinisello B. (MI) 1999

I. Biffi, La teologia e un teologo. San Tommaso d’Aquino, Piemme, Casale M. (AL) 1984.

T. Tyn, Metafisica della sostanza, ESD, Bologna 1991.

V. Possenti, Filosofia e Rivelazione, Città Nuova, Roma 1999.